Scrivendo in una rubrica all’interno di un sito interamente dedicato agli sportivi, oggi vorrei spendere qualche riflessione sul meccanismo insito nella gioia e nella delusione di gruppo rispetto ad un evento sportivo.
Senza allontanarci troppo, prendiamo ad esempio la delusione fortissima dei tifosi di calcio italiani, nella mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali per la seconda volta consecutiva.
Ci saranno stati coloro che ne avranno parlato al bar con gli amici, chi la sera a cena non si sarà dato pace, chi avrà anche pianto e chi addirittura avrà provato un sentimento di angoscia, delusione e tradimento. Come fosse un evento altamente impattante sulla propria vita.
Con la stessa intensità, ma con modalità opposte, si saranno verificate simili reazioni quando invece l’Italia il Mondiale lo ha vinto nel lontano 2006. Data che ormai rimane: il sogno di una notte di mezza estate.
Che cosa accade quando un evento sportivo accomuna (o divide) tantissime persone nell’esperire sensazioni emotivamente potentissime? Da dove nasce questo fenomeno?
Dagli albori della civiltà, l’uomo ha avuto bisogno delle relazioni per sopravvivere, perché i contesti erano divenuti troppo ampi. Quindi fare le cose in solitudine era impossibile, si aveva bisogno della forza e della presenza dell’altro. Così nacque la società.
È evidente che una società è troppo vasta per allinearsi tutta agli stessi gusti, pensieri, idee politiche, credi religiosi. Quindi nel tempo gli uomini hanno sentito l’esigenza di ritrovarsi tra coloro che condividono alcuni aspetti della vita: nasce così il gruppo.
Il gruppo è un insieme di persone i cui ruoli sono interconnessi; persone che interagiscono le une con le altre in modo organizzato sulla base di desideri e obiettivi condivisi. Gli elementi che distinguono il gruppo sono:
• Gli obiettivi
• I ruoli diversi
• Le comunicazioni
• Le interazioni (reciproca influenza, interdipendenza e identificazione)
• Le norme
• Le percezioni
• Le relazioni affettive
In base al numero dei componenti che ne fanno parte il gruppo può essere piccolo, medio e grande (oltre i 30 membri).
Fu Kurt Lewin, psicologo tedesco, con la sua Teoria di campo, a valutare le situazioni psicologiche in base al contesto di riferimento: in tali contesti agiscono delle forze che favoriscono oppure ostacolano il comportamento del soggetto.
Albert Bandura (psicologo cognitivista), pioniere dell’apprendimento sociale, scoprì più avanti come i comportamenti degli altri vengano interiorizzati e replicati, evidenziando come il contesto sociale possa far compiere azioni con le quali non siamo completamente in accordo.
Questo spiega molto bene cosa accade quando, durante una partita di calcio, tantissime persone hanno l’esigenza di condividere quei 90 minuti e tutto ciò che ne consegue, davanti alla tv o sugli spalti dello stadio. Spiega cosa accade quando all’urlo di un agognato goal anche persone che non si conoscono si abbracciano, piangono insieme, si parlano da un finestrino all’altro della macchina…
Stanno condividendo un’emozione forte, un vissuto che li fa ritrovare tutti insieme, uguali, compattati davanti a un obiettivo. Viceversa, qualche settimana fa ci siamo ritrovati di fronte alla grande delusione per la mancata qualificazione della Nazionale: in quel momento non era il dissapore di uno, ma di tanti, tutti uniti e ritrovatisi in quello stato d’animo.
La necessità di identificarsi, ritrovarsi nelle somiglianze e contrastare le diversità, è una fase molto forte nell’adolescenza dove appartenere al gruppo significa esserci, essere accettati, esistere per gli altri.
Ed è un’esigenza che persevera soprattutto negli uomini: non a caso il tifo è un qualcosa di prettamente maschile, così come lo è il fare squadra.
Nel prossimo articolo mi dedicherò a cosa può comportare la divisione non volontaria in squadre o gruppi.
Intanto all’Olibanum Overrunners auguro di essere sempre gruppo e squadra. Esattamente così come lo è adesso. Perché anche senza vincere i Mondiali ci si può comunque sentire campioni!
Alessia Pavoni
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