Parliamoci chiaro, partorire, benché sia la cosa più naturale del mondo, prevede cambiamenti con cui occorre scendere a compromessi.
Innanzitutto la gravidanza comporta uno stravolgimento fisico: il corpo si espande diventando un amabile contenitore di vita; le gambe si gonfiano; la pelle si trasforma; il viso si ingrossa e ogni donna sembra perdere tutto il suo fascino.
Le persone guardano le future mamme con tenerezza; cedono loro il posto sull’autobus; gli fanno mangiare qualsiasi cosa per scongiurare le fantomatiche “voglie”. Insomma gliele danno tutte vinte. Come fossero bambine, incastrate, loro malgrado, in un corpo da anziane, a causa dei movimenti rallentati, impacciati e affaticati.
In alcuni casi sono prigioniere delle celebri nausee, che le condizionano per almeno i primi tre-quattro mesi di gestazione; hanno difficoltà nel vestire e limitazioni nel mangiare; diventano vittime di un countdown inesorabile verso un lieto fine che sembra non volere mai arrivare.
Un percorso che culmina nel momento del travaglio: l’ultimo passo, il dolore più forte che ogni donna deve affronatre prima di dare alla luce il suo piccolo miracolo.
Essere mamma è un impegno che inizia nel momento stesso in cui si decide di farlo. In un primo momento c’è l’ansia del concepimento, dove la speranza si alterna allo sconforto (qualora non si riuscisse subito nell’intento). Poi c’è la fecondazione e l’inizio di 9 mesi nei quali ogni donna si dedica totalmente alla vita che le cresce dentro. Infine il dolore immenso del parto, prima della gioia più grande: un figlio che sarà il vero e unico motivo della sua esistenza.
Per molte donne il parto ha conseguenze indelebili, mutamenti fisici e psicologici che si riflettono sull’intero arco della vita. I padri, per quanto meravigliosi, cominciano a sentirsi tali solo quando vedono il bambino e iniziano a interagire con lui. Per questo alcune donne non si sentono capite dai loro compagni.
Un altro tema connesso alla gravidanza è senz’altro la sindrome post partum. Un pensiero preminente, che nel tempo ha assunto i tratti di uno spauracchio da esorcizzare.
Niente di più sbagliato. Questa fase non va demonizzata, catalogandola semplicemente come una forma evidente di depressione, con sintomi invalidanti conclamati, bensì va vissuta come un periodo in cui occorre soddisfare le proprie esigenze di donna, compagna e mamma e al contempo anticipare quelle del neonato.
Tutto ciò in uno scenario che il più delle volte prevede il rientro a lavoro, una casa da mandare avanti e la necessità di tornare a essere la “donna” del proprio uomo. Sicuramente non si tratta di una passeggiata.
Per questo motivo è fondamentale supportare la donna il più possibile: non farle notare dove non riesce ad arrivare, ma apprezzarla per tutto ciò che riesce a fare; farla sentire, sempre e comunque, bella, donna, individuo distinto e separato dal proprio bambino; aiutarla a ritagliarsi del tempo per sé, per le sue cose e per i suoi interessi; stimolarla a fare sport, a prendere un caffè con le amiche, ad andare dal parrucchiere.
Riscoprirsi come donna diventa imprescindibile per creare il giusto senso di maternità. Un senso sano ed equilibrato che deve fungere da valore aggiunto e completamento naturale per l’individuo e per la coppia.
Alessia Pavoni
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