Ero lì, seduta come ogni fine settimana, sul treno che mi conduceva a casa. Questa volta mi era capitato il posto 6 della carrozza 8, quello con il tavolino. La sorte volle premiare la mia brama di scrivere un articolo. Ero alla ricerca di un’ispirazione, tra un kitkat e un mandarino preso al volo dal frigo di casa.
Poi, fui distratta dall’irruzione di una famigliola con un pargoletto nel passeggino. Sedevano davanti a me, erano giovanissimi: lui, aveva ancora chiari segni di acne tra la barba rada ed incolta; lei, invece, capelli lunghi, belli, lucidi, di un marrone che andava schiarendosi alle punte.
Teneva in braccio il figlio con una cura ed una dedizione che solo una madre sa fare. Sapeva esattamente cosa il bambino volesse mangiare, come farlo ridere, con quale giocattolo farlo divertire, quando attaccarlo al suo seno gonfio di latte…
Il padre, invece, lo guardava come fosse qualcosa di ancora curioso. Ci giocava come se volesse esplorarne le gesta per familiarizzare con lui.
La mamma muoveva la mano, il bimbetto rideva. Il papà lo trastullava, il bambino frignava.
Lei raccomandava il compagno su tutto ciò che doveva fare con il piccolo; lo indirizzava alla scoperta di quel mondo ancora estraneo per lui, racchiuso in poco meno di un metro di lunghezza.
«Incredibile! - pensai - ho davanti a me una classica scena familiare: una supermamma totalmente protesa alle cure del suo bambino e il compagno alla ricerca anche lui delle stesse cure, se pur lungo qualche decina di centimetri in più».
Dinamiche che il tempo non cambierà mai: testa lui, cuore lei, pensai. E mi risuonarono in testa i versi di Haim G. Ginott: “La comprensione di una madre è come un cerotto di emozioni per un Io ferito”.
Alessia Pavoni
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